topless di fronte a un campo di girasoli fioriti

Don’t #freethenipple in Italy

Oggi è il Go Topless Day, la giornata – originariamente americana – a supporto del diritto delle donne di girare in pubblico a petto nudo e capezzoli al vento, proprio come gli uomini. Non a caso quest’anno coincide anche con il Women’s Equality Day, la giornata nazionale dell’uguaglianza delle donne.

Il campo di battaglia per l’uguaglianza dei capezzoli si è di recente spostato dalle piazze cittadine – teatro di marce a senso scoperto – alle strade virtuali dell’internet, dove il movimento #freethenipple si ribella alla bieca censura si Instagram & co. reclamando la stessa libertà riconosciuta ai capezzoli maschili per quelli che spuntano sui seni femminili, supportato da un’evidenza inconfutabile: un capezzolo è un capezzolo.

Nella mia breve vita da sex blogger o qualcosa di simile (non amo le etichette ma sono delle comode scorciatoie per capirsi!) ho postato spesso scatti utilizzando l’hashtag #freethenipple, perché credo nel valore di libertà che la nudità si porta dietro una volta normalizzata e riportata al suo stato di condizione naturale, liberata dalle associazioni con il sesso, le perversioni e l’esibizionismo malizioso.

 

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Chi mi conosceva prima del blog e ha assistito a questa mia trasformazione, oggi scherza dicendo che non mi riconosce più quando mi vede per strada con i vestiti addosso.
Il valore di questa nuova libertà che ho fatto mia negli ultimissimi anni è incalcolabile ma ha un prezzo che é proporzionale al lavoro che ho fatto su me stessa per compiere uno shift culturale.
Ho imparato che per arrivare a spogliarsi consapevolmente dei vestiti bisogna prima lasciare cadere le camicie di forza dei tabù e dei condizionamenti responsabili delle nostre resistenze culturali.

Due anni fa ho deciso di spostare il centro della mia vita in Inghilterra e mi sono trasferita a Bristol. Sono una persona abbastanza curiosa ed esplorativa, mi piace farmi contaminare dagli usi e costumi locali, filtrare il mondo attraverso la prospettiva di una cultura differente dalla mia.

Sono quella che il primo giorno di vacanza a Singapore si è seduta a mangiare una specie di gelato locale – una montagna insipida di acqua ghiacciata e lievemente zuccherata – noncurante degli avvertimenti sul consumo di acqua del rubinetto. (per la cronaca, non ho accusato nessuno scompenso).

La mia personale contaminazione British è iniziata mettendo il latte (di soia!) nel tè ed è proseguita togliendo il reggiseno, quell’arnese di cui la mia seconda scarsa, che fa ancora il dito medio alla forza di gravità, in fondo non aveva alcun bisogno.
È stata una piccola grande rivoluzione per me che nei negozi di intimo saltavo con disprezzo tutte le bralette e i reggiseni molli alla ricerca di coppe lisce e imbottite che non lasciassero trapelare il minimo accenno di capezzolo.

Una sola volta avevo provato a uscire di casa senza reggiseno, andando a una festa di compleanno di un’amica indossando un vestito aderente che non lasciava alcun dubbio su forma, texture e dimensione del mio seno. L’avevo fatto con lo spirito del gioco di coppia, per ammiccare alla mia dolce metà in pubblico.  Per tutta la serata non ho pensato ad altro che i miei capezzoli schiacciati sotto il peso di occhi insistenti e increduli, mi sono sentita osservata e giudicata, e mi sono giudicata io per prima. Tornata a casa mi sono detta “mai più”.

In Inghilterra la libertà di espressione è qualcosa di reale, che puoi percepire, assaporare. Frequentando le strade, i locali, stando in mezzo alla gente, ho saggiato la mancanza del giudizio e delle occhiate che ti soppesano o ti spogliano con l’immaginazione, mi sono nutrita di quell’I don’t care che rende la gente libera di andare in giro come cavolo le pare, di personalizzare il proprio avatar sociale senza limiti di forma, colore, stile.

D’altro canto lì è dura essere esibizionisti e trovare di che nutrire il proprio ego, bisogna abituarsi a passare inosservati e a brancolare nell’area grigia della normalità anche quando si prova ad essere particolari, originali. Il mio zaino di peluche a forma di unicorno ha attirato al massimo l’attenzione di qualche ubriaco che ridendo e oscillando ha molestato il corno dorato con la mano.

Quella inglese è una libertà a cui noi italiani non ci abitueremo mai, una mancanza di limiti che sfida una cultura decennale nel campo della moda e fa a pugni con quel senso innato per lo stile. Le giacche eleganti indossate sui pantaloncini da calcio e gli incidenti estetici di gambaletti, vestitini a pois e scarpe da trekking (l’ho visto coi miei occhi!) arrivano come una coltellata dritta allo stomaco tricolore subito dopo essere balzati agli occhi.

C’è una cosa che tutti gli inglesi mi dicono sempre appena si rendono conto che sono Italiana (quindi subito!) “Ah, gli Italiani! Lo stile! La moda! voi si che vi vestite bene, sapete come scegliere e abbinare i vestiti”. Qualcuno abusa di falsa modestia e aggiunge anche un “non come noi che ci vestiamo like shit”.   

Mi chiedo se tutto questo spiccato senso estetico, se questa ricerca del bello e dell’abbinamento perfetto non abbia finito per vestirci di gabbie estetiche che sono diventate mentali, di stereotipi omologanti, cucendo dei vincoli sulla nostra libertà di espressione.

Poi torno in Italia, casa, e mi ricordo che la moda è l’ultimo dei nostri problemi folcloristici. Siamo sovralimentati da una cultura fondamentalmente maschilista ed eterosessista, dove l’uomo è il maschio predatore e la donna è la preda civettuola; dove i maschietti vengono lodati dai padri per le dimensioni dei loro peni e incitati a scegliere le prede tra le bambine, quelle carine; dove alle femminucce viene insegnato a giocare con un potere erotico per farsi desiderare e inseguire prima di auto-consegnarsi al predatore, quello giusto.

È nella terra del buon cibo e dell’ottimo vino che i miei capezzoli, lasciati liberi di respirare, rimbalzare, inturgidirsi, acquisiscono i superpoteri e si tramutano in calamite per gli occhi, di uomini e di donne. È qui che quella conquistata libertà inizia a diventare un fardello più pesante del reggiseno. Io mi ripeto che I don’t care, ma la verità è che posso farlo perché quel peso non grava solo su di me, lo condivido con la mia dolce metà, che funziona un po’ come deterrente e un po’ come validazione della mia immagine di persona rispettabile.

Non so se mi farei carico di quel fardello da sola. Non so se riuscirei a sopportare gli sguardi insistenti degli sconosciuti per strada, le battute a mezza voce, quella sensazione di pericolo, di diventare una preda in mezzo a un branco di sopraffattori, e la disapprovazione silente dei miei genitori, frenati solo da un’età, la mia, che non gli consente più di porre dei divieti e stabilire cosa posso e non posso fare.

Temo che l’Italia non sia ancora pronta per la libertà.

Don’t #freethenipple in Italy.

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